Grotta del Buco
  Comune: Villabate (Palermo)

Posizione
E 013° 26.611'
38°04'13.4"N 13°26'36.7"E
38.070383, 13.443517

Quota ingresso: m 185 s. l. m.

Roccia: dolomie giurassiche della formazioni Fanusi (desunto da carta geologica ISPRA).

Scheda d’armo: spezzone di corda o fettuccia su clessidra all’imbocco, eventuale frazionamento su spit a monte della verticale di m 13 circa, corda m 30 circa.

 

Descrizione e note: Cavità scoperta e segnalata intorno all'anno 1990 da Gerlando Lo Cicero e Franco Costa, primo rilievo e descrizione del 17 aprile 2021 di Giuseppe Ippolito. Cavità tettonica impostata su faglia orientata N-S. L'imbocco è orientato a Nord ed è ampio circa m 1,2 in larghezza e m 1,5 in altezza. Dall'ingresso al fondo ci sono circa m 14 di sviluppo prevalentemente verticali. Nei pressi dell'ingresso si riconosce paleosuolo color rosa salmone relativo a fasi diverse dell'evoluzione della faglia e speleotemi esposti a sole che testimoniano lo smantellamento della parte settentrionale della faglia. La faglia immerge di circa 70° verso ovest, il lato subverticale (orientale) presenta colate calcitiche consistenti, la parete occidentale, a strapiombo, presenta concrezioni a vela regolarmente distanziate e parallele. Qualche stalattite notevole e stalagmiti con strutture coralloidi. Lo stillicidio è ridotto o assente e le concrezioni hanno aspetto polverulento (aprile 2021). La Grotta è frequentata da un rapace notturno non identificato, probabilmente un barbagianni, al fondo è un accumulo di nicchi di gasteropodi polmonati, elitre ed altre parti chitinose di coleotteri, ossa e denti di micro-mammiferi.

Giuseppe Ippolito

 









Cala Firriatu

U "firriatu", in siciliano, è un recinto. Probabilmente il nome è riferito all'antico muro in pietra che chiudeva la stretta striscia di terra tra la parete di roccia a nord di contrada Sàuci-piccolo ed il mare. Oppure è riferito al "recinto" di faraglioni a mare di Punta Tannure, un cerchio di grandi blocchi caduti dall'alta falesia di Sàuci. Il luogo si trova alle pendici occidentali dei Monti dello Zingaro, poco lontano dalla località San Vito Lo Capo. Nuotare in questo specchio d'acqua (da alcuni ribattezzato banalmente "lago di Venere"), circontati da alte pareti di roccia, offre la suggestione di un paesaggio ancestrale. Uno di quei luoghi relitti, risparmiati dalle invadenti attività umane che l'anarchico camminatore e amante della vita selvatica, Thoreau, avrebbe probabilmente apprezzato. A monte di Cala Firriato, all'ombra di un'alta parete rocciosa è uno degli ultimi piccolissimi frammenti di foresta costiera di Sicilia e le sensazioni che offre, a noi umani di città, sono forti, per l'integrità naturalistica e la straordinaria ricchezza di specie vegetali ed animali.

Per una scheda naturalistica del sito vedi qui: https://murieta70.blogspot.it/2011/09/calafirriato.html

Monte Cardellìa (m1266)

Se doveste girare in Sicilia un classico film western, la scelta per le riprese in esterno cadrebbe molto probabilmente sulle campagne a sud di Corleone. Un attacco dei Lakota e dei Cheyenne sull'orlo dello spettacolare canyon a meandri del Torrente di Corleone, poco prima di precipitare nella Cascata delle due Rocche, non avrebbe nulla di meno di una ripresa a Little Bighorn. Così come una caccia al bisonte sulla prateria di finocchio selvatico di Montagna Vecchia confonderebbe persino il tristo e laido Buffalo Bill e l'assalto di tal Charles Cary alla diligenza di Deadwood, coi mitici winchester che sparano dalle rupi del Monte Cardellìa, sarebbe epico quanto l'imboscata originale alla Canyon Springs Stations del 1878.
In inverno anche qui ogni tanto c'è neve e ci potreste ambientare i western del grande nord, ad esempio un film sulle vicende degli Irochesi, gli indiani dei grandi laghi tra Canada e Stati Uniti. Allora il Lago di Prizzi sarebbe il Lago Ontario e potreste ambientarci il romanzo Manituana dei Wu Ming.
Insomma un paesaggio di grandi spazi, terre brune, praterie e coltelli da scotennare, adatto ai bisonti, alle vacche, alle epopee della nuova frontiera. Invece questi stessi luoghi sono stati teatro di vicende più mediterranee e altrettanto epiche: la lotta dei contadini siciliani contro il feudo e contro la mafia, il sindacalismo di Placido Rizzotto, la storia sociale e politica del secondo dopoguerra fino alla mesta latitanza del boss Provenzano, tra le casette di Montagna dei Cavalli, ai piedi della foresta di finocchio selvatico di Montagna Vecchia, da noi or ora dedicata al bieco Buffalo Bill.
Proviamo ad andare più indietro nel tempo e leggiamo dentro le rocce del Miocene mediterraneo, almeno quindici milioni di anni fa. Nelle "calcareniti di Corleone" troviamo denti fossili di pesci grandi e piccoli, varie specie di squali e antichi sparidi: gli antenati delle orate e dei dentici. Forse questo è lo scenario per noi emotivamente più tranquillo: acque temperate, calde, terse e pulite, fondali sabbiosi, tanti pesci, tra cui famelici squali.
Il Monte Cardellìa, alto 1266 metri, offre ampia vista su i rilievi circostanti: Monte Barracù, Rocca Busambra e Montagna Vecchia. oltre che su un ampio settore dei Monti Sicani e della Sicilia occidentale.

Il rilievo espone a nord un imponente versante erboso adibito al pascolo di vacche e pecore. A sud invece precipita in una spettacolare parete rocciosa, che mette in evidenza due litologie diverse che si sono formati tra la fine dell'Oligocene e il primo Miocene. In alto è esposta un'arenaria calcarea suddivisa in strati decimetrici. In basso, protette in parte dall'erosione dalle arenarie soprastanti, affiorano argille e marne. Le arenarie presentano una particolare struttura sedimentaria detta "laminazione incrociata" che si origina quando nell'ambiente di deposizione, in questo caso sottomarino, sono presenti correnti periodiche unidirezionali. Calcareniti e marne di Cardellìa sono associate quindi ad ambienti di piattaforma aperta e scarpata, prossima al continente emerso, con apporto frequente di sedimenti fluvio-deltizi (trasportati dai fiumi).
Punto di partenza per iniziare a percorrere a piedi la spettacolare cresta del Monte Cardellìa è la Portella Spolentino sulla quale probabilmente passava un'antica via di comunicazione che oggi è una stradina dissestata secondaria. Il Cozzo Spolentino, che sovrasta la portella omonima, è una punta molto suggestiva, anch'essa costituita da arenarie calcaree. E' nota tra gli archeologi per le evidenze che attestano la presenza di un antico abitato ellenistico abbandonato alla metà del III sec. a. C. (Spatafora 2002). A rendere interessante la narrazione archeologica è stato lo studio dei reperti di un saggio di scavo del 1993 adiacente ad uno scasso operato da tombaroli qualche tempo prima. I reperti hanno portano a formulare l'ipotesi della presenza di un santuario extaurbano dedicato a divinità connesse al mondo femminile, alla giovinezza e alla fertilità (Portale 2008). Non è stato possibile risalire a quale divinità fosse dedicato il santuario, forse ad Artemide, se non a Demetra e Kore o Afrodite, o alle Ninfe o ad ed Era (Galioto 2011), ma in ogni caso, anche ipotizzando la non piena adesione della popolazione di questo insediamento alla religiosità greca, il santuario suggerisce attenzione particolare, da parte loro, per i momenti della nascita e del matrimonio.

Isli e Tislit Lac d'Isli e Lac de Tislit

Imilchil, Agoudal, Marocco, m2360, Medio Atlante. Incontro un pastore sull'altopiano, circondato dalle sue pecore. Ha il cappuccio a punta per proteggersi più dal sole che dal freddo, anche se é mattino presto, il cielo é plumbeo e viene giù persino qualche goccia. Lo saluto e mi fa cenno di avvicinarmi. Ha gli occhi chiari, verde acqua, sarebbe stato un buon soggetto per il fotografo Mc Curry, pelle cotta dal sole e fessurata, pochi denti logori, eta' indefinita. Mi chiede di dove sono, mi parla in francese, ci tiene a tradurre qualche parola del suo discorso anche in berbero. Mi fa notare dei bassi muretti sulla collina e dei cocci di vetro sparsi a terra. Dice che li hanno lasciati i francesi nel 1933.

L'esercito francese era accampato qui nel trentatré e allora non si poteva venire al pascolo. Bevevano tanto e i cocci di vetro sono di tutte le bottiglie di alcolici che hanno bevuto. Fa freddo qui in inverno, dice come per giustificare quanto bevessero, anche in estate la temperatura non supera quasi mai i 30 gradi.

Intorno alla cittadina berbera di Imilchil, si espande un altopiano che si mantiene sopra i 2000 metri di quota, Appare piuttosto arido e le temperature superano raramente i 30 gradi. A poca distanza tra loro e dalla cittadina  esistono due ampi laghi dalle acque azzurre: Lac d'Isli e Lac de Tislit. I geologi marocchini ne attribuiscono l'origine all'impatto di meteoriti avvenuto circa 40.000 anni fa, anche se a prima vista hanno tutto l'aspetto di invasi di origine tettonica dal riempimento di depressioni argillose dell'altopiano costituito a una successione sedimentaria debolmente inclinata di alternanza argille e arenarie. I berberi conservano una suggestiva legenda che vuole i due invasi originatisi dalle lacrime di due amanti morti per il dispiacere di non aver potuto coronare il loro sogno d'amore per l'opposiziione delle rispettive famiglie. Isli e Tislit significano infatti fidanzato e fidanzata.

Sull'altpiano cresce una pianta spinosa che si mantene bassa e resiste al morso delle pecore: il Carthamus pomelianus.

I laghi Tislit e Isli
La leggenda

Sentiero Turiddu Carnivali

Sciara è un piccolo centro in provincia di Palermo noto, insieme al paese vicino Cerda, per la produzione di carciofi e per essere stato feudo dei principi Notarbartolo di Sciara. Nelle sue campagne, ai piedi di Monte Euraco (Monte San Calogero), ricade un misterioso e interessantissimo sito preistorico che comprende un dolmen e un tratto di grandi mura megalitiche noto come "Mura Pregne". E' tristemente noto anche per l'esecuzione mafiosa di un giovane sindacalista, Turiddu Carnivali, nato a Galati Mamertino (Messina), sui Monti Nebrodi, e trasferitosi giovanissimo a Sciara con la madre. A Sciara "Turi" fonda la sezione locale del Partito Socialista Italiano, si impegna per i diritti dei braccianti del feudo Notarbartolo e per i lavoratori delle cave di pietra da frantoio. Si distingue per la sua efficace trattativa con la principessa Notarbartolo. Per questo impegno è ucciso dalla mafia il 16 maggio del 1955. Al processo contro i suoi assassini assisterà l'avvocato Sandro Pertini, suo compagno di partito e futuro presidente della Repubblica. Alla vita e alle opere di Salvatore Carnevale, il poeta siciliano Ignazio Buttitta ha dedicato un noto "Lamentu" che i cantastorie siciliani Nonò Salamone e Ciccio Busacca hanno musicato e cantato. Lo scrittore Carlo Levi ha dedicato a lui un romanzo: "Le parole sono pietre" e i registi fratelli Taviani ne hanno fatto un film. Al suo impegno sociale ed alla sua memoria vogliamo adesso, noi escursionisti siciliani, dedicare un percorso a piedi, un sentiero, un cammino che parte dalle campagne di Sciara e sale al Piano di Maggio, altopiano a gariga erbosa contiguo al Monte San Calogero e circondato da punte di roccia calcarea. La vegetazione arborea è selezionata dal fuoco. Gli alberi più grandi sono le sughere.

Euphorbia resinifera

La prima descrizione di questa pianta è attribuita al dotto e stimato Re Giuba II di Mauretania (52 a.C - 23 d.C), che in un trattato ne descrive le proprietà e la chiama Euphorbia, dal nome del suo medico personale greco. L'Euphorbia resinifera cresce in una limitata regione dei versanti occidentali del Medio Atlante in Marocco, dalle alte colline fino a circa 1500 metri di quota. Si trova spesso in associazione con ginepro e Tetraclinis, palma nana argentea e Pistacia atlantica. E' pianta nota dall'antichità per le proprietà analgesiche della resiniferatossina. E' usata oggi sopratutto come pianta mellifera e i suoi fiori sono frequentati anche da numerosissime falene diurne della specie Catocala nymphaea famiglia Erebidae


Catocala nymphaea

Il Cammino dei Sette Cieli

Il Cammino dei Sette Cieli è un percorso escursionistico ad anello che dall'abitato di Altofonte (Pa) raggiunge e percorre la cresta delle Punte della Moarda sui Monti di Palermo. Le sette punte rocciose di questa montagna calcarea sono tradizionalmente chiamate "cieli" e numerate dalla Punta Primo Cielo, prossima ad Altofonte, alla Punta Settimo Cielo, la più alta di tutte. E' uno dei più affascinanti e misteriosi rilievi tra quelli che coronano la Conca d'Oro, uno dei più umidi e boscosi. Il nome Moarda, di origine araba, significa, non a caso, "zampillante di acqua". Da almeno centocinquant'anni gli escursionisti di Palermo usano il nome "Punta Settimo Cielo" per indicare la più occidentale delle punte della Moarda, alta 1090 metri, ma questo toponimo non è riportato sulle carte dell'IGM. In una pubblicazione del Touring Club Italiano, la preziosa guida rossa del 1968, è citata anche la "Punta Terzo Cielo", con attribuizione contraddittoria del primato della quota.
Ad aumentare il fascino di questa montagna, oltre ai cieli numerati, è l'aspetto a luoghi fiabesco della porzione di altopiano carsico che si sviluppa a sud-est della cresta. Area boscosa dove la corrosione carsica ha formato labirinti di roccia, pinnacoli aguzzi, piccole grotte, anfratti ed angoli suggestivi. In una delle grotte alle pendici della Moarda sono state trovate terrecotte preistoriche
della Cultura del Vaso Campaniforme, o "bicchiere campaniforme, della tarda età del rame, 2600 - 1900 a.C. circa.
Per chi si lasciasse adesso prendere dalla bellezza del selvatico e dal mistero, potrebbe già abbandonare la via razionale e collegare tutto ad antichissime sapienze esoteriche. Quei cieli numerati, uniti alle altre caratteristiche appena descritte, offrono tutti gli ingredienti per riportare alla luce parte della cultura medievale europea o almeno l'astronomia di quel tempo: le sfere celesti di Aristotele e i nove cieli del paradiso di Dante.
In questo contesto la "terza punta" della Moarda sarebbe il "Terzo Cielo" nell'astronomia dantesca, quello attribuito a Venere e nel quale risiedono le anime di coloro che si dedicarono all'amore, e la Punta Settimo Cielo diventa il cielo di Saturno, dove per Dante si trovano le anime di coloro che si diedero alla vita contemplativa.
Guardandole dall'altopiano, a dirla tutta, le cime sono anche più di sette e non è tanto facile darne un numero preciso.
Si potrebbe  concludere qui con un unicuique suum, cioè a ciascuno il proprio cielo, ma a proposito di cieli medievali, in un suo recente libro, Carlo Rovelli, il fisico italiano che si occupa di Gravità Quantistica, fa notare quanto Dante Aligheri nel XXVII canto del Paradiso fosse inconsapevolmente vicino al modello di universo a tre-sfera associato alla teoria della relatività generale di Einstein.
Dante descrive infatti l'ultimo cielo del suo paradiso, il cielo più esterno, come quello che racchiude tutti gli altri, ma che contemporaneamente è racchiuso in essi. Appena finisce di percorrere il cielo più esterno del paradiso si ritrova, senza discontinuità, al punto di partenza. Questa soluzione gli permette di evitare di dover relazionare su un eventuale spazio oltre il bordo del paradiso, o peggio ancora, su un poco gestibile paradiso infinitamente esteso. Pare che questa idea sia stata suggerita a Dante dal suo maestro Brunetto Latini, il quale descriveva la superficie terrestre, sferica, come il luogo in cui un uomo, camminando sempre dritto davanti a se, prima o poi debba ripassare dal punto da cui è partito. Un uomo su una sfera può camminare sempre dritto e non incontra mai un confine che lo costringa a tornare sui suoi passi. Dante fa propria l'osservazione del suo maestro Latini e la applica al suo paradiso. Quando giunge al suo confine estremo, nel nono cielo, si ritrova di nuovo all'interno di tutti i cerchi interni che aveva già percorso, come al punto di partenza. Niente bordo, niente horror vacui, in una rassicurante continuità. Già nel VI secolo a.e.v, Archita, tarantino e filosofo pitagorico, si chiedeva che senso potesse avere una superficie di confine dell'universo nel momento in cui baserebbe allungare un braccio per oltrepassarla. Per contro la soluzione di un universo infinito pone problemi ancora più difficili da risolvere. L'infinito per i fisici rappresenta quasi sempre un errore. E' preferibile allora seguire Latini e Dante, rendendo più rigorosa la loro elegante soluzione e ottenere un universo finito, ma senza bordi. Stiamo parlando della soluzione contemporanea ad un enigma antico di secoli cioè la domanda se l'universo sia finito o infinito.
Per seguire il ragionamento dei fisici immaginiamo un universo piatto abitato da esseri bidimensionali. Questi esseri, camminando sempre dritto in un universo esteso infinitamente, non troverebbero mai un bordo, ma, come dicevamo, la soluzione con l'infinito non va bene ai fisici. Non va bene però neanche che l'universo abbia un bordo perchè resta il problema di capire cosa succede all'abitante dell'universo quando lo raggiunge e come concepire poi che possa esserci un "oltre" per l'universo che per definizione deve contenere tutto. Immaginiamo allora di avere non uno, ma due universi piatti, bidimensionali e finiti. Immaginiamo di incollarli tra loro per il bordo. In questa nuova stuazione otterremmo una superficie bidimensionale continua in cui gli esseri bidimensionali possono ancora andare sempre dritto in tutte le direzioni e pur abitando un universo che non è infinito, ma è una superficie chiusa, possono mantenere infinitamente qualsiasi direzione senza incontrare mai un bordo. Per semplificare geometricamente la situazione appena descritta assumiamo che l'universo bidimensionale sia la superficie di una sfera, una figura tridimensionale che ben conosciamo, ottenuta incollando tra loro due universi piatti lungo il bordo.
Fate caso al fatto che la sfera è una figura tridimensionale, ma l'universo che abbiamo appena costruito è bidimensionale per i suoi abitanti ed è limitato solo alla superficie di quella sfera. La parte abitata è solo la superficie della sfera, gli abitanti non sono in grado di accorgersi della forma complessiva, tridimensionale, del loro universo e immaginano di abitare un universo infinitamente esteso.
Estendendo ulteriormente il processo prendiamo adesso due sfere. Immaginiamo che queste sfere sono due universi tridimensionali non infiniti quindi dotati di bordo. Gli abitanti di questi universi vivono e possono muoversi nelle tre dimensioni. Se incolliamo le due sfere per il bordo, cioè tutta la siperficie esterna, otteniamo una 3-sfera. A noi, esseri tridimensionali, riesce difficile immaginare di incollare tra loro due sfere per il bordo, ma se noi abitassimo in quattro dimensioni ci renderemmo conto che l'operazione è possibile e neanche troppo complicata. La figura che otteniamo, la 3-sfera, è l'analogo della sfera che conosciamo noi, ma immersa in uno spazio quadridimensionale. Noi non riusciamo a visualizzare questa figura, è difficile per noi pensare di incollare due sfere per la superficie esterna, ma l'operazione è perfettamente possibile in matematica e il modello che ne risulta concorda con la nostra attuale esperienza dell'Universo e ci risolve molti altri problemi. Noi abitiamo la superficie tridimensionale di un universo quadridimensionale in cui muovendoci senpre dritto, in qualsiasi direzione non incontriamo mai un bordo, nonostante il nostro universo non sia infinito. L'universo è finito, ma senza bordi: una 3-sfera.
La tre-sfera è la soluzione ideale per l'universo relativistico, l'universo per come oggi lo concepiamo. Anche noi, come Dante e Brunetto, andando sempre dritto nello spazio dovremmo dunque ritrovarci al punto di partenza?
Tornando adesso alle Punte della Moarda, percorrendo il Cammino dei Sette Cieli, dall'abitato di Altofonte, giungiamo alla Punta Settimo Cielo. Continuando a seguire il sentiero senza tornare mai sui nostri passi, ci ritroviamo al punto di partenza, ma in questo caso è tutta un'altra questione...